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Le nostre e le vostre riflessioni sul Judo e la sua evoluzione
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イタリア柔道
La Leonessa del tatami
29/04/2022
Emanuela Pierantozzi a ruota libera
Stare vicino a lei e come essere entrato nella storia del judo italiano. La donna più potente del judo italiano, sembra dura per i tratti del viso ma i suoi occhi e la sua frezza bianca nei suoi capelli ti fanno capire come è tenera. Le sue rughe non hanno a che vedere col passare degli anni, le sue rughe raccontano la storia.
a ragazza è stata sempre abituata a combattere. Lo faceva In mezzo alla strada o con i suoi amichetti di scuola. Era, per così dire, una “maschiaccia” e non si tirava indietro a niente però aveva le sue regole che non ha mai dimenticato: non si poteva tirare i capelli, stringere le dita, sputare… Avrebbe voluto fare la pallanuotista o la calciatrice ma, per fortuna, incontrò un ragazzino che era anche più abile a salire sugli alberi e faceva judo. Per fortuna nostra
D: Come hai iniziato a fare judo?
EP: Ho iniziato alla fine degli anni ’70. Amavo le sfide e spesso mi confrontavo nella lotta a corpo a corpo con i compagni di classe e per strada. Durante queste imprese ho scoperto che i più abili praticavano Judo. Quel tale che non riuscivo a far cadere era un judoka.. ed è successo più di una volta. Così è nata la mia curiosità per questa disciplina, capendo che ti insegnava a fare tante cose. Chi faceva Judo, per esempio, era anche più abile a salire sugli alberi. Nella mia testa il Judo aveva preso posto, era diventata un’arte marziale interessante, da conoscere. A quel tempo avrei voluto fare scherma e avrei voluto fare anche tennis, ma erano attività molto costose per tre fratelli, invece Judo era possibile senza grande spesa per la famiglia, quindi, per fortuna Judo.
D: Quando hai capito che avevi i numeri per eccellere?
EP: Molto presto. Nel mio gruppo numeroso di coetanei ero la più forte, anche dei maschi. Ci confrontavamo in tante sfide e personalmente ho avuto sempre un po’ di talento nel combattimento. Quando ho iniziato a praticare Judo, di questa disciplina mi piaceva il randori, non lo studio tecnico. Lo studio spesso mi annoiava a morte, forse perché non lo capivo o forse perché non mi era insegnato in base alle mie esigenze. Però mi piaceva molto il combattimento e soprattutto le gare. In gara con poco ottenevo tanto, perché mi allenavo al massimo due volte a settimana. Molte volte sono andata a far la gara senza essermi allenata e vincevo comunque. Ho capito che il Judo poteva essere sicuramente una mia grande passione piuttosto che il nuoto, che praticavo già da tempo. Nel nuoto non ho mai voluto fare gare, non mi piaceva. Allora avrei voluto fare pallanuoto, ma non c’era la pallanuoto femminile. Avrei voluto fare calcio ma non c’era la squadra femminile. Almeno Judo mi permetteva di fare uno sport per il quale mi sentivo tagliata.
D: Sei stata sempre longilinea, alta e forte?
EP: Si, ma con dei problemi durante la crescita per via di quest’altezza. Appartengo a quel 25% di giovani adolescenti che, durante il picco di crescita staturale, hanno dei problemi alle ginocchia, proprio per quest’allungamento veloce dell’arto inferiore. I primi problemi comunque li avevo avuti già a nove anni. Ho subito due sub lussazione della rotula alle elementari, poi verso i 16 anni una totale instabilità dell’articolazione, tanto da impedirmi di camminare. In quel periodo, purtroppo, ho dovuto sospendere qualsiasi attività sportiva, compreso il Judo.
D: Chi è stato il tuo primo Maestro?
EP: Otello Zanatta, un grandissimo insegnante, più che altro un grande motivatore. Sapeva portarci in gare, ci appassionava. Tecnicamente lui era della vecchia scuola, sul tatami parlava troppo per i miei gusti. Non ho mai avuto la pazienza di ascoltare le sue lezioni. A volte non andavo ad allenarmi perché mi annoiavo, invece andavo a fare le gare.
D: Quale è stata la tua prima gare ufficiale che hai vinto?
EP: Avevo 10 anni, quando ho conquistato la mia prima medaglia. A 10 anni pesavo 29 kg. Mi ricordo che hanno accorpato varie categorie e ho gareggiato nei 33 kg, contro due sorelle gemelle. Ricordo che dopo il combattimento con me sono scappate via piangendo avendo subito entrambe un ippon abbastanza…intenso, diciamo così.
D: Eri feroce già a quell’epoca?
EP: Feroce no, aggressiva si. Lo sono sempre stata: aggressiva ma corretta. Quando prima di far Judo combattevo per strada, avevo dei principi e li rispettavo: non si poteva tirare i capelli, stringere le dita, sputare ecc.. quindi anche in quei combattimenti rispettavo le mie regole di ingaggio. E’ successo anche da grande ai miei primi Mondiali. C’è un filmato di quella gara dove durante un incontro con l’inglese, lei fa una tecnica, tipo suwari seoi nage, io difendo, sto per fare un contraccolpo dietro, tipo tani otoshi, lei grida e io lascio. In quel filato si sente uno che dice: “Ha lasciato, ma che ingenua!”, ma io ho lasciato perché in quel momento la mia avversaria si stava facendo male e, comunque, l’ho battuta lo stesso. Stessa cosa mi è successa anni dopo facendo una leva in gara. Faccio una leva all’avversaria, era una spagnola, lei ha gridato “ahia” e io prontamente l’ho lasciata, perché avevo capito che aveva problemi alla spalla. Lei dopo la gara è venuta da me e ringraziata. Quindi, si, ero una bambina molto aggressiva, ma anche molto rispettosa. E questa peculiarità mi è sempre rimasta. Ho avuto avversarie con le quali ci siamo confrontate con grande aggressività, ma sempre con grande rispetto. Questo atteggiamento ha avuto conseguenze positive anche nel trattamento che da atleta ho ricevuto dagli arbitri. Mi son trovata in situazione di parità (allora era possibile vincere anche con la parità) dove l’arbitro è stato a mio favore proprio perché riconosceva un certo stile, una certa correttezza, cosa che spesso a noi italiani non era riconosciuta. Spesso nelle situazioni di parità noi eravamo penalizzati. È successo ai primi europei che ho vinto. Incredibilmente nell’89 la squadra femminile di judo su otto atlete, allora c’erano anche gli open, sette sono arrivate in finale, io per l’oro, le altre per il bronzo. Incredibilmente tutte quante abbiamo finito all’hantei, ma l’unica a cui è stata data la vittoria sono stata io, tutte le altre sono arrivate quinte.. forse non è stato solo un caso. A livello di arbitraggio è importante il riconoscimento di uno stile che, seppur aggressivo, è corretto e pulito..
D: Quando hai vinto il tuo primo Campionato Italiano?
EP: Agli Assoluti, l’Autunno dell’88 a Trieste. Il Judo quell’anno era diventato una cosa seria per me e mi ero detta “impegniamoci”. Avevo anche iniziato l’ISEF per diventare insegnante di educazione fisica…Dopo un periodo tormentato, potevo finalmente intravedere un futuro nello Sport che amavo. Solo pochi anni prima, in seconda superiore, per via dell’instabilità rotulea avevo dovuto sospendere ogni attività e in terza Liceo avevo pian piano iniziato a praticare i Lanci nell’Atletica Leggera. Poi in quarta, quando finalmente il mio accrescimento si è stabilizzato, son tornata a fare Judo e nell’86 ho vinto il mio primo Campionato Italiano Junior. Come Senior quello stesso anno, tornando sul tatami dopo due anni fermo, sono arrivata terza. In verità più per ingenuità che altro. Prima di tutto avevo sbagliato il peso. Rispetto ai 66 degli Junior poco dopo ho gareggiato agli Assoluti nei 72 kg. Il sabato del week end della qualificazione regionale agli Assoluti c’era stata una festa di compleanno, così quando ho fatto il peso la domenica mi son trovata un chilo in più e ho dovuto cambiare categoria. Poi in semifinale nazionale, ho perso per un mio errore d’ingenuità: dopo una mia contro-tecnica in piedi contro la Berti, finita a terra ho visto l’arbitro centrale darmi Waza Ari, il giudice di sedia (che allora c’erano) di fronte darmi Ippon, così mi sono girata per vedere l’altro giudice dietro di me, ma nel girarmi lei mi ha immobilizzata…quindi al mio primo Campionato Assoluto sono arrivata terza. L’anno dopo, nell’87, l’ultimo anno delle superiori, sono arrivata seconda, perdendo in finale all’hantei con la Fiorentini. A quella gara volevo prendere le misure sul mio futuro. La Fiorentini era titolare della categoria 66 da tempo, io mi ero presa questo impegno: se fossi arrivata in finale sarei andata a studiare all’ISEF, se invece non fossi arrivata né prima né secondo sarei andata a studiare fisioterapia. Per fortuna sono arrivata in finale.
D: Poi sei entrata in Nazionale?
EP: in verità la prima esperienza in Nazionale l’ho fatta da cadetta…ecco, vedi, il primo Campionato Italiano di categoria l’ho vinto in terza media e lì ho preso la cintura nera…a giugno di quell’anno. Dopo la licenza media sono andata a fare il mio primo raduno a Genova. Quella è stata la mia prima esperienza da “Azzurra”. Un’esperienza veramente emozionante. Ci si allenava tre volte al giorno ed ero felice. Se pensi che io mi allenavo due volte a settimana…volevo far quello per tutta la vita. La prima volta che ho vinto un titolo di categoria è stato quindi a 13 anni.
D: Dunque, sei entrata in Nazionale?
EP: Si, la prima esperienza è stata quella. Una settimana dove tutte piangevano e io, invece, ero felicissima. Tre allenamenti al giorno, ma la maggior parte di noi si allenava come me solo due volte alla settimana.. e piangevano queste ragazze! Io invece ero contenta, ma capivo che il carico di lavoro era impegnativo, specialmente per le ragazzine più piccole, che non erano abituate a quel tipo di allenamento.
D: Perché piangevano?
EP: Erano disperate, lontano da casa, troppo allenamento, troppo duro. L’approccio metodologico era empirico e lasciato alla buona volontà del Maestro di allora, senza una grande preparazione devo dire. Uno dei principi fondamentali dell’allenamento è “Individualizzazione del carico di lavoro”. il primo allenamento della giornata era “Preparazione Fisica” prima di colazione, poi il secondo allenamento era due ore sul tatami e il terzo allenamento era altre due ore sul tatami. Non erano abituate, tutte veramente erano massacrate, io invece ero fisicamente più preparata perché avevo uno stile di vita molto attivo. Ero molto allenata e capivo che invece le altre ci soffrivano, era troppo faticoso per loro.
D: È stato in quel periodo che hai capito dove potevi arrivare?
EP: L’ho capito quando mi è capitato in mano un giornalino, “Il Guerrin Sportivo”, dove c’era la Nazionale Senior di Judo Femminile. Io in verità non sapevo che si poteva ambire a gare molto importanti. Grazie a quella rivista ho scoperto che c’erano i Mondiali Femminili di Judo. Il mio primo raduno l’ho vissuto da cadetta nel 1982 e nell’84 c’è stato questo campionato del Mondo, dove la Motta ha vinto, ed è uscito così l’articolo su quella rivista. Leggendolo mi sono detta:” Cavolo allora mi devo impegnare”. Era l’anno in cui ho iniziato ad avere problemi di crescita, ma quando ho visto l’articolo ho pensato che quella potesse essere la strada della pratica di un’attività appassionante. A quel tempo il Judo Femminile non era ancora uno sport olimpico. A 11 anni avevo sognato di fare le Olimpiadi, ma poco importava, avrei provato col Judo. L’estate dei miei 11 anni i miei genitori mi avevano portato ad Olympia (Grecia) e là, sul quel bellissimo campo sportivo, ho sognato per la prima volta di partecipare un giorno anch’io come atleta a quell’evento. Poi è stato il destino che il judo femminile sia diventato sport olimpico.
D: Quando sei entrata nella Nazionale Senior come ti è sembrata?
EP: Sono entrata nell’86 e sono rimasta sorpresa, perché mi aspettavo maggiore professionalità. Invece ho trovato una situazione molto eterogenea. Venivo da due anni di Atletica Leggera, dove ero stata anche selezionata per la squadra regionale. Nonostante i problemi alle ginocchia avevo raggiunto un buon livello in quella disciplina. Nel Judo, quell’anno, con tre allenamenti a settimana ero tornata a vincere i Campionati Italiani Junior. Al contrario nell’Atletica Leggera, con due ore di allenamento tutti i giorni, potevo sperare di vincere soltanto a livello regionale.. una bella differenza! Nell’Atletica mi ero abituata ad un certo tipo di lavoro, con compagni di squadra con una certa preparazione fisica e molto in forma. Nella Nazionale Femminile, invece, ho trovato chi super in forma, come la Zimbaro, e chi assolutamente non in forma, eppure era in nazionale. C’erano anche Judoka che, nonostante fossero titolari, commettevano errori gravi nell’alimentazione. Quindi mi sono un po’ sorpresa nel vedere all’interno di quel gruppo un livello così eterogeneo. Questo indicava che la nostra disciplina, allora, era ancora agli inizi di una crescita, di un percorso professionale.
D: Poi sei diventata Campionessa, Mondiale….
EP: Si ma prima c’è stato il successo agli Europei. Davanti a me, come ti ho detto, c’era Cristina Fiorentini ed io ero comunque contenta. Ritornavo finalmente al mio sport…abituata All’atletica, dove dovevi allenarti tanto per migliorare un pochino, nel Judo invece mi erano bastati tre allenamenti a settimana per vincere un Campionato Italiano di categoria. Volevo fare le cose con calma, invece l’allenatore della Nazionale (Mariani ndr) ha puntato subito su di me, sul mio talento. Ai miei primi Europei, a maggio dell’88, pensavo di fare gli Open, di giocarmi il posto con la Berti, perché non ero titolare della mia categoria, ma mi andava bene così. Erano tante le cose nuove che mi stavano capitando. Quando l’allenatore mi ha scelto e mi ha detto che sarei stata io la titolare dei 66 è stata una bella sorpresa e una bella responsabilità. A Pamplona, ai quei primi Campionati d’Europa, sono arrivata seconda. Ci ha visto bene Mariani, anche perché in finale ho perso con la Schreiber, allora Campionessa del Mondo in carica, e ho perso all’Hantei, per parità. Ho vinto una medaglia di argento da combattente più che da Judoka, il Judo è arrivato dopo.
D: Quale è stato l’allenatore che ti ha maggiormente aiutato come Judoka?
EP: Mah.. …allora, io penso di avere una storia particolare perché sapevo già combattere prima di salire sul tatami. Poi, spesso, a lezione di Judo mi sono scontrata con uno allenamento tecnico statico, poco adattabile alle mie leve lunghe e “delicate”, con un approccio didattico totalmente inadeguato al mio talento, approccio inadeguato che ho trovato anche in Nazionale (giovanile, Junior e Senior). Quelle situazioni di studio non mi permettevano di esprimermi al meglio sul tatami. Per fortuna in gara facevo comunque Ippon. Quindi, da giovane, non ho mai incontrato un tecnico così rivoluzionario per il mio Judo. Per diventare più forte io osservavo le altre atlete. Chi mi ha ispirato all’inizio della mia carriera è stata Ingrid Berghmans, una supercampionessa dei 72 kg, che aveva un judo spettacolare e caratteristiche fisiche simili alle mie. Quindi, più che seguire i consigli dell’allenatore, io studiavo atlete come lei. Con gli allenatori della nazionale italiana non c’è stato mai grande feeling. Loro non capivano i miei bisogni, io non capivo la loro proposta tecnica di Judo. Per cui, anche oggi, ho un modo diverso d’insegnare rispetto alla media. Oggi che sul tatami, per il tipo di lavoro che svolgo, ci sto poco, non mi definisco più una tecnica, ma una “metodologa”. Io non insegno più la tecnica, ma un metodo didattico e di allenamento, la tecnica te la costruisci da te. Se vuoi la tecnica vai da un tecnico che t’insegnerà la tecnica, a me piace insegnare un metodo trasferibile a qualsiasi azione. Tornando a quando ero ancora un’atleta, era il randori il momento di grande crescita tecnica e tattica per me. Soprattutto il randori con grandi campionesse come Ingrid Berghmans. Allora in Nazionale, lo sai bene, nessuno, t’insegnava effettivamente qualche cosa. Tutto sommato è stato meglio così. Se un tecnico deve insegnare delle cose sbagliate e far perdere tempo prezioso all’atleta, meglio lasciare gli judoka liberi nella loro ignoranza e farli allenare con tanto randori fatto bene. Comunque, a fine carriera, ho voluto dedicare gli ultimi due anni che mi rimanevano a qualificarmi per la mia ultima olimpiade e a crescere tecnicamente e didatticamente come futura insegnante. Alcune tra le mie avversarie più forti erano allenate da Jean Pierre Gibert. Così ho chiesto al Presidente Pellicone di potermi allenare per conto mio, staccata dalla nazionale italiana e ho chiesto a Gibert se mi poteva fare da consulente tecnico e incontrarlo una volta al mese. Nelle varie occasioni d’’allenamento, in giro per la Francia con il mio nuovo tecnico, ho iniziato a vedere che tipo di lavoro facevano sul tatami i coach francesi e apprezzare quel metodo: situazione/problema, progressione didattica partendo dall’esercizio di riscaldamento passando per l’esercizio tecnico in movimento e finendo con il randori situazionale. Tutto collegato, nulla noioso. Tutto poco statico, adatto ad ogni leva e, soprattutto, tale da far sviluppare nell’atleta un approccio tecnico individualizzato. Incredibilmente, a distanza di venti anni, oggi, un metodo simile a quello che ho imparato sui tatami francesi, lo utilizzo nella mia didattica all’università. Questo metodo, definito innovativo, è il “Tema Based Learning” (TBL). Anche se ci sono alcune differenze con l’insegnamento del Judo, la sostanza è la stessa: rendere l’allievo protagonista dell’apprendimento, dove l’insegnante diventa regista e propone “situazioni problema”, casi di studio, che lo studente deve risolvere in team. Per utilizzare questo “apprendimento basato sul lavoro di gruppo” ho seguito un corso di formazione di un anno. Il TBL mi è piaciuto da subito tantissimo. Non posso che approvare, per il bene dello studente, quando si obbliga l’insegnante a scendere dal pulpito e si stimola gli allievi a trovare le soluzioni, non si da “la pappa pronta”. Si obbliga l’allievo a usare la propria testa attivamente, si stimola la creatività e, soprattutto, si tonifica la sua personalità.
D: Con Jean Pierre Gibert hai fatto due anni, gli ultimi due anni?
EP: Gli ultimi due anni della mia carriera si, si. Ci vedevamo una volta al mese, io andavo a Parigi da lui, poi dopo si è spostato a Tolosa.
D: Quindi nessun italiano
EP: Avevo scelto di allenarmi fuori dalla Nazionale Italiana. In quegli anni avevano messo come Direttore Tecnico Romanacci e io non ci andavo d’accordo. Non mi piaceva la sua modalità di imporsi, come ruolo e come programma. Poteva andare bene per i giovani, ma io ero un’atleta già matura e poi aveva bisogno di nuove sfide. Non potevo accettare, a quell’età, di sottomettermi ad un certo modo di vedere il Judo e l’allenamento, che a me assolutamente non piaceva. Mi sono allenata con lui per un breve periodo, ma dopo tre mesi avevo le ginocchia che mi ballavano e poi avevo già la mia personalità, avevo bisogno di altri stimoli, di continuare a crescere. Con lui non sarei cresciuta. Per fortuna il Presidente Pellicone, e lo ringrazio, mi ha permesso di finire la mia carriera come desideravo. La Dottoressa Muroni mi ha fatto da tecnico, ed è stata molto paziente con me. Barigelli, il mio ineguagliabile preparatore fisico, mi ha fatto la programmazione. Lui era stato mandato via dalla Nazionale Judo nel ’97 e in quel periodo Ennio era il preparatore della Nazionale Femminile di Pallavolo. Spesso sono andata a Ravenna, al centro Federale della FIPAV, a trovarlo per dei check, poi la preparazione la eseguivo per conto mio. Rientravo in squadra per gli stage o per le gare. A caro prezzo, ma ho voluto la bicicletta, quindi ho dovuto pedalare parecchio… Ho seguito un percorso finale che mi è piaciuto molto, praticando un Judo che avrei voluto sempre fare. Inoltre in Francia quando entri in un qualsiasi impianto scolastico, trovi delle palestre e dei dojo che noi in Italia ce le sogniamo! È stato proprio un piacere.
D: È tutto, riguardo al judo, amplificato rispetto a noi
EP: Hanno la cultura dello sport. Hanno i “professeur du judo”. Poi hanno dei corsi di formazione che alla fine sono anche momenti molto conviviali. Non c’è soltanto discussione, c’è anche proprio un incontro. Hanno comunque una scuola e questo permette di trovarsi e di condividere delle cose. Hanno i centri sportivi. Lo sport in generale è ben strutturato e il Judo pure di conseguenza. Li mi son sempre sentita più a casa che in Italia. In Italia, purtroppo, mi son pian piano allontanata dalle situazioni di gara, perché le ho trovate sempre troppo eccessive, troppa emotività e troppa poca professionalità. Io sono molto esigente, molto professionale, forse un po’ distaccata, però questo è il mio carattere insomma, il mio modo di vedere lo sport e il Judo…
D: Come ti sei trovata in Nazionale tutti quegli anni: bene, male…
EP: Fino a 22-23 anni mi è piaciuto tantissimo. Giravo il mondo con coetanei che condividevano la mia grande passione del Judo. Dopo di ché, purtroppo, vicino alla mia prima Olimpiade, quello stile di vita, dopo i primi due o tre anni di novità, era divenuto monotono, sempre la stessa cosa.. Era come vivere in un piccolo paese dove tutti facevano lo stesso mestiere. Se tu sei una persona che ha tante curiosità, che desidera prendersi del tempo per esplorare anche altre cose, c’è da impazzire. La mia parte artistica era “affamata”, non potevo più tenerla lì ferma. In quel periodo, è brutto da dirsi, la Nazionale ha iniziato a starmi molto stretta, molto molto stretta.. Ero in crisi totale. Mi è dispiaciuto per i miei compagni di squadra di allora, perché ero totalmente assente. Se prima potevo essere stata un punto di riferimento, una leader, in quel periodo ero divenuta insopportabile, perché stavo male, ero lì ma avrei voluto essere altrove. Per fortuna in quel momento è intervenuta la Dottoressa Muroni.
D: La dottoressa Muroni è stata fondamentale per te…
EP: Eh si. Sennò ero arrivata a 23 anni con questa crisi che l’unica strada sarebbe stata arrivare, non so come, alle Olimpiadi e poi smettere. Cose che lei è riuscita a mediare e rimandare. La sua abilità è stata riuscire, nonostante la mia profonda crisi esistenziale, a farmi continuare a fare judo, a vincere così un altro Europeo, a vincere una Medaglia Olimpica e a diplomarmi all’ISEF. Per carattere, avevo, nel bene e nel male, una parte tostissima. Se le mie avversarie avevano paura di me era perché avevo questa parte molto determinata. Questo aspetto, quando poi mi girano le scatole, manda tutto a quel paese. È quello che è successo all’Olimpiadi di Atlanta nel ‘96. Questo mio aspetto è una parte di me potentissima, che ti vince un mondiale ma che ti distrugge anche un percorso di vita in un attimo. Quindi l’intervento della Dottoressa è stato fondamentale per evitare una virata, dove ci avrei solo che rimesso. Senza il suo aiuto non avrei potuto fare altrimenti. Come succede a tanti atleti, tanti talenti, no?! sono ingabbiati, ad un certo punto impazziscono. A meno che non riesci a trovare una soluzione.. Infatti io, per fortuna, sono andata dal Presidente Pellicone e gli ho detto: “ho bisogno di aiuto! Sennò non riesco a fare le Olimpiadi”. In quel periodo, quando mettevo il judogi, mi veniva da vomitare. Non so, forse non l’hai mai saputo, ma al Torneo di Parigi del ’92 avevo proprio quella sensazione, mi mettevo il judogi e mi veniva da vomitare. Al primo incontro son svenuta. L’avversaria, l’inglese Rowena, mi aveva strangolata, e, paradossalmente, quando mi son risvegliata stavo meglio. Rowena è stata poi un’allenatrice che ho rincontrato quando eravamo entrambe coach delle Nazionale giovanili e tra noi c’è sempre stata grande stima. A proposito, ora lei è la Presidente della British Judo Association, una grande! Ricordo la sensazione dello svenimento di grande liberazione. Quando ho riaperto gli occhi il medico mi ha detto: “Benvenuta a Parigi” e io in quel momento avevo un senso di sollievo.. Quindi sono andata da Pellicone e ho detto: “Guardi ho bisogno d’aiuto perché senno io non arrivo alle Olimpiadi”. Veramente non sapevo come fare. Quel fatto è stato così eclatante che il Presidente con la sua capacità ha trovato la persona giusta. Perché in verità andavo già da una psicologa a Bologna, ma essendo sempre in giro non sarebbe stato sufficiente a risolvere i miei problemi.
D: Hai nominato Atlanta, che è successo là?
EP: È successo che ci sono stati tanti errori di nuovo. La cosa impressionante è che a distanza di anni ho saputo che hanno ripetuto quegli stessi errori. Come a Barcellona, Atlanta, Sydney, così nel 2004, nel 2008 ecc.. Non sono più presente, ma me l’hanno raccontato. Purtroppo, il quadriennio politico si conclude l’anno delle Olimpiadi, e questo cavolo di coincidenza fa sì che l’atleta senta tutti questi casini dirigenziali. Al dirigente balla la sedia sotto al sedere, stessa cosa agli allenatori della Nazionale. Quindi per l’atleta non c’è quella tranquillità che bisognerebbe avere. Poco prima di partire per le Olimpiadi di Atlanta, a noi atleti residenti al Centro di Ostia han tolto le camere. Ti rendi conto che errore?!! Io avevo la mia cameretta e ad un certo punto ci hanno sbattuto fuori e fatto sentire indesiderati.. ci hanno sfrattati! E questo prima della gara, invece di aspettare che finisse l’Olimpiade…han fatto errori su errori! Io sono andata ad Atlanta che ero talmente incazzata che, invece di pensare alle avversarie, pensavo a quanto ero incazzata con la federazione, veramente molto incazzata. Ad Atlanta non hanno messo in squadra neanche la Dottoressa Muroni, l’han lasciata a casa…Questi sono errori che prima o poi paghi…Ho pagato io prima di tutti. Quando hai un carattere come il mio, purtroppo, non esiste il compromesso. L’atleta non fa compromessi. Un atleta che fa compromessi non può essere un campione. Il campione non fa compromessi, se facesse compromessi non arriverebbe a vincere contro la giapponese tre volte Campionessa Mondiale in carica, come è successo a me al primo incontro a Sydney… Sono i due lati della stessa medaglia. Ad Atlante, mi ricordo, durante l’incontro che ho perso con la tedesca, avversaria che avevo già battuto ben 4 volte su 4 quello stesso anno, pensavo a quanto ero incazzata. Ero talmente incazzata e stressata che, la settimana prima della gara, non ero riuscita a perdere peso per rientrare correttamente in categoria. È stata la prima ed unica volta in vita mia, della già lunga e titolata carriera, che ho dovuto correre prima di salire sulla bilancia per il peso ufficiale. Ed ho finito così stressata e incazzata che il giorno dopo la gara ho preso 7 kg di non so cosa.. Ero una palla gonfia e non avevo mangiato gran ché.. E’ incredibile quello che combina lo stress.. Volevo smettere di far Judo. Non sopportavo che nei momenti più importanti della mia carriera succedessero sempre degli “schifi” politici. Quella vota ad Atlanta da una squadra ne erano quattro, quattro diverse squadre. Non c’era più la Nazionale italiana, c’erano quattro piccoli gruppi che si odiavano.
D: Tu hai parlato di campionesse, ma tu ti ritieni una campionessa o una fuoriclasse?
EP: Dimmi la differenza
D: La fuoriclasse anche se non si allena trova il modo di vincere, invece la campionessa deve tribolare con gli allenamenti se vuol vincere.
EP: il mio talento per il combattimento è innato, ma fisicamente sono fragile, ho bisogno di allenarmi. …guarda aver fatto tre olimpiadi con queste ginocchia è un miracolo. A 9 anni avevo già subito due sublussazioni ma a 5 anni mio padre mi aveva già portato da un ortopedico che voleva operarmi per “centrare” le rotule. Quindi in qualsiasi altro sport non sarei andata da nessuna parte, nel Judo, dove sfrutti anche l ’errore dell’avversario, invece si. Con le ginocchia come le mie, io certe tecniche non le posso e non le ho potute mai tirare, se no le rotule mi escono. Oggi faccio tanta bici per tenere le rotule in sede, perché è un problema congenito. Quindi, avendo un problema congenito devo comunque allenarmi. oggi come ieri devo tenermi in forma per evitare problemi ortopedici più seri. Però allora, se ho vinto il mio primo Mondiale nell’ Ottobre dell‘89, dove a luglio di quell’anno mi ero sub lussata la rotula, è perché il Judo te lo consente, ma fisicamente sono fragile. Quindi, come judoka sono sicuramente una fuoriclasse, avendo vinto il primo mondiale senza sapere fare un gran Judo. In finale ho battuto la giapponese Sasaki che era Campionessa Olimpica in carica delle prime Olimpiadi dimostrative di Seoul. Ho l’istinto del combattimento, dello squilibrio, dell’opportunità nella transizione. Avevo già Okuri shime waza nelle mani prima ancora di studiarlo. In finale con Sasaki più volte ho sentito quell’opportunità, avevo la mano già in posizione, al bavero del suo collo, ma non sapevo tirar la tecnica perché non l’avevo mai studiata in allenamento, però la mano era già al collo, perfettamente ben posizionata.. E’ la tecnica che ho dimostrato stamattina allo stage. Tecnica che ho imparato dopo. L’avessi conosciuta allora avrei vinto per ippon di strangolamento, non all’Hantei, perché in due occasioni il suo collo era già fra le mie mani. Quindi un istinto pazzesco, tante tecniche l’ho tirate prima in gare e poi le ho studiate in palestra.
D: Dunque sei una fuoriclasse
EP: Certo, però dipendente dall’ allenamento. Credo nell’allenamento per la longevità della propria carriera. Se tu vuoi una carriera lunga devi allenarti adeguatamente perché previeni gli infortuni.
D: Cosa rinnegheresti o faresti di nuovo nella tua carriera?
EP: Sicuramente, col senno del poi, dopo le Olimpiadi di Barcellona, invece di stare ad Ostia ad annoiarmi a morte, in 4 gatti in croce sul tatami, sarei andata in giro. Ecco, sarei andata più spesso e più a lungo a fare Judo in Francia e in Giappone. Nel ’93 ho fatto una seria ma breve esperienza in Giappone, anche se poi mi sono lussata il ginocchio dopo 2 settimane (non avevo potuto fare i miei esercizi con i pesi per la stabilizzazione dell’articolazione!!). Li ho riscoperto il piacere di fare Judo. Quando sei una professionista un po’ ti abbrutisci. Il miglioramento o il mantenimento della performance a volte non coincide con ciò che desidereresti fare per cambiare, per evolvere. E’ quello che spiegavo stamattina: se tu vuoi vincere devi essere al massimo della performance al momento giusto e certe cose, che è un piacere fare, devi limitarle o evitarle. Alle volte il miglioramento della performance per vincere in gara non coincide con le tue esigenze “artistiche”. Invece quando si fa Judo è bello anche prendere degli Ippon se si sta svolgendo una nuova ricerca, alla scoperta di un nuovo modo di esprimere un’azione. La ricerca libera è un lusso che spesso non ci si può permettere. Dopo un quadriennio Olimpico, secondo me, ci sta’ che ti prendi un anno sabatico e vai a fare una cosa diversa, non necessariamente Judo, non so, un anno di golf, oppure un Judo totalmente differente, dove non c’è la prestazione. Qualcos’altro per rigenerarti. C’è stato un ’93/’94, quando mi son diplomata all’ISEF, molto noioso a livello di Judo, eravamo veramente 4 gatti sul tatami. Facevamo una buona preparazione fisica con Barigelli, ma come Judo.. nulla di che.. Si poteva crescere tanto andando all’estero, andando nelle scuole giapponesi.
D: Quale gara rifaresti subito?
EP: Andata male o andata bene?
D: Male
EP: Beh Atlanta. Io ad Atlanta ero da finale. Le atlete che avevo sul percorso le avevo tutte battute e bene quello stesso anno. La finale con la coreana Cho non so, lei era più forte di me in quel periodo. Perché io allora avevo già una certa età e un Judo un po’ limitato. Come ti ho detto, io sono cresciuta molto gli ultimi due anni della mia carriera, grazie al francese che ha assecondato il mio stile e l’ha aperto a nuove soluzioni. Invece 4 anni prima ero più limitata. Non ci si allenava bene tecnicamente in Nazionale. Quindi quella Olimpiade la rifarei. L’ ho proprio buttate via, ero troppo incazzata. Anche i Mondiali del ’95 li ho un po’ sprecati, non ho veramente combattuto come sapevo fare, perché ero demotivata. Nel ’96, invece, per le Olimpiadi avevo fatto un bel lavoro, avevo capito gli errori del ’95, tant’è che quando mi son dovuta qualificare ho vinto tutti i tornei che dovevo vincere subito, e mi sono piazzata prima nella ranking list di qualificazione olimpica della mia categoria.
D: Cosa ti faceva provare salire sul podio?
EP: bella questa domanda… Per me non era il massimo salire sul podio. In una gara di Judo per me il massimo era quando suonava il gong e l’arbitro mi dava la vittoria. Il podio mi stava un po’ sul cavolo… Il podio è sempre stata la passerella dei politici e a me quella cosa dava molto fastidio.
D: Però per te cosa significava?
EP: Per me era la vittoria sul tatami il momento di vera emozione, all’assegnazione dell’ippon da parte dell’arbitro o al gong di fine incontro. Il podio lo consideravo un momento istituzionale, mi dava la medaglia, ma nulla di più. A livello organizzativo, ai miei tempi, spesso il momento del podio era gestito male. Salivi sul podio e tra gli spalti non c’era più nessuno. T’arriva al collo la medaglia ma tutti erano già andati via. Tranne in Francia e in Giappone nella mia esperienza le altre volte il podio era una formalità da affrontare più per dovere che piacere. Al mio primo mondiale a Belgrado, ad esempio, l’inno italiano si è interrotto a metà, e così non mi è uscita neanche la lacrimuccia….
D: Ma ti sei mai emozionata?
EP: Si. Più alla fina della mia carriera o in certi momenti particolari. Ad esempio se tu vedi c’è una foto di Barcellona ’92 scattata poco dopo la finale, dove son proprio felice anche se avevo perso.. perché non ne potevo proprio più. Le Olimpiadi, se non ti dopi, se sei una persona “normale” sono uno stress, ma uno stress.. inimmaginabile. Quelle di Barcellona sono state le prime Olimpiadi del Judo femminile con la medaglia che valeva, quindi avevo una responsabilità enorme come pluricampionessa mondiale in carica… Due i momenti di emozione più intensa che posso raccontarti. Li ricordo come se fosse ieri: il primo a Barcellona, il secondo a Sydney. A Barcellona quando, prima di salire sul tatami, ho pensato la strategia e l’uchimata che poi ho realizzato che mi ha permesso l’accesso alla finale Olimpica. È stata una cosa potentissima, un ippon realizzato in 9 secondi di combattimento. L’altro momento, di emozione unica l’ho vissuto otto anni dopo, di nuovo alle Olimpiadi, prima dell’ultimo combattimento della mia carriera. Nel 2000, in finale per il bronzo mi aspettava un’avversaria, Luna Diadenis, che era arrivata terza agli ultimi Mondiali e che aveva vinto il titolo a quelli prima ancora. Di nuovo una cubana come nella finale del ’92. In quel momento mi sono detta: comunque vada è già bello. Avevo i brividi proprio per la bellezza di quel momento unico, ancor prima di combattere, perché ero entrata nel flow. Stavo vivendo la pienezza di quel momento, consapevole di aver fatto tutto ciò che dovevo. Ero in pace con me stessa. Poi l’ho battuta bene nonostante fosse stata più forte di me. Luna conosceva quel mio strangolamento e pensava di fregarmi. Lei era esperta della sua contromossa. Io ho fatto finta di cadere nella sua trappola, sentivo che mi aspettava, ma l’ho fregata. Sono stata più veloce e abile nell’esecuzione, adattando la tecnica alla sua difesa. Son momenti magici, unici! E poi quello era l’ultimo combattimento della mia carriere agonistica e ne ero consapevole.
D: Cosa diresti alle ragazze che si apprestano a far judo oppure per convincerle.
EP: Convincere a fare judo non è facile. Judo è una disciplina particolare, devi proprio amare il combattimento e il contatto. Contatto che in tanti giovani è problematico. Ad esempio, tanti miei studenti non praticano arti marziali. Nel mio corso voglio maschi e femmine assieme per insegnare a gestire ogni confronto in sicurezza, nonostante le diversità. Vedo comunque che non è facile. Vedo il loro disagio nelle situazioni di contatto, però poi si appassionano. Judo è una disciplina che permette di fare quelle esperienze che oggi mancano. Tutto è mediato, tutto è distante. Noi invece ci alleniamo al contatto. Prima dello scontro c’è l’incontro. Nell’incontro bisogna imparare a dialogare con l’altro, ascoltare fisicamente ed empaticamente. Siamo troppo mentali. Abbiamo dei gran problemi di comunicazione fisica. Quindi, praticando Judo, il giovane allena il linguaggio corporeo, che è alla base di qualsiasi relazione affettiva. Questo può essere sicuramente una buona motivazione per convincere i giovani a sperimentare il Judo, perché è uno sport di contatto sincero. Entri in relazione con l’altro, ti prendi, ti afferri, ti annusi, entri nello spazio intimo. Prima di opporti devi sapere creare una buona collaborazione con il tuo partner di allenamento. Judo è un’attività sincera, quando sbagli il feedback sull’errore è immediato: quando sbagli spesso fai un bel tonfo. Lo capisci subito che non avevi l’atteggiamento giusto mentale e/o fisico. Quindi è estremamente sano come Sport. Attività utile a risolvere i problemi sempre più diffusi nei nostri giovani. A volte non si conoscono, non riconoscono le emozioni e non sanno proprio come toccarsi, non sanno proprio come afferrarsi, sono molto inibiti. Il Judo permette di superare tutto questo. Invece per i giovani judoka, quelli che sono già appassionati alla nostra disciplina, il mio messaggio è: fate si che la vostra passione aumenti e non diminuisca.
D: Non dipende da loro però
EP: No, no. Ci son delle strategie, devi ingegnarti. Se la tua passione inizia a vacillare devi capire perché è successo, cosa non va’. Devi farti delle domande e cercare strategie. Se veramente sei appassionato e stai perdendo motivazione alla pratica devi prendere delle pause, cosa che io fatto. Due volte ho smesso per periodi lunghi. Se sali sul tatami deve piacerti. Se vuoi essere vincete deve piacerti. Sennò non ha senso e spesso succede che se si sale sul tatami poco convinti ci si fa male. Arriva l’infortunio che ti obbliga a fermarti. Quindi dipende anche da loro.
D: Un’ultima domanda, che cos’è per te il judo
EP: È un linguaggio, è una via di ricerca personale attraverso l’altro. È un modo per mettersi in gioco con sé stessi grazie anche all’altro che ti dà un feedback immediato, che ti dà la sua realtà, come un gioco di specchi. È una ricerca, è un’arte. Il combattimento, che grazie alle sue regole nessuno si fa male, è molto sfidante, molto bello. Ti fa esplorare le tue emozioni, i tuoi sentimenti, le tue paure. Anche quelle dell’altro ed è una ricerca anche di miglioramento. È un modo per tenersi vivi, attivi. Judo è una grande opportunità di ricerca, di esplorazione.
D: Un’ultimissima domanda. Come lo vedi il Judo italiano?
EP: È che lo conosco ormai poco. Non frequento più palazzetti, frequento poco i mondi associativi.. Vedo che il Covid ha messo a dura prova le associazioni. Potrebbe essere una grande opportunità di cambiamento perché bisogna un po’ reiventarsi, così non si sopravvive.
È un peccato che la nostra Federazione abbia fatto finta di dimenticarsi di una grande campionessa di judo così come lo è stata Emanuela Pierantozzi, oppure se l’è scordata proprio; perché la “leonessa del tatami” adesso è una ricercatrice e una judoka, è un’artista di valore e ancora insegna.
Quante cose ancora avrà da dirci? Se aspettiamo la federazione non avrà mai motivo di dircele.