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Randori, considerazione e ricordi
Articolo 116

Randori, considerazione e ricordi


13/01/2020


C

redo che in nessun altro momento della pratica judoistica, si concretizzi, come nel randori, l’aforisma di Kano “Insieme per progredire”. Nel randori il judoka esterna in una situazione di confronto /scontro i propri valori atletici, tecnici, tattici, creativi ed estetici. In questa fase del judo lo scambio di conoscenze ed esperienze, diviene direttamente o indirettamente una costante. In randori judoka all’apice della loro forma fisica, esercitandosi con judoka anziani e di lunga esperienza, concedendo loro la possibilità di esprimersi, evitando di far valere una maggiore prestanza atletica, possono recepire raffinati gesti tecnici e tattiche elaborate frutto di una lunga e costante pratica. Sempai pazienti e disponibili possono interferire positivamente nella crescita judoistica dei giovani Koai proponendo loro randori dai contenuti educativi e molto meno competitivi, al fine di stimolare entusiasmo e non ingenerare mortificazione per attacchi non riusciti e dure proiezioni subite. Il mio pensiero e che fatta eccezione per i casi citati, nel randori si debba profondere notevole determinazione per far valere in modo probante, e mai con arroganza, le proprie capacità judostiche. Astenersi dal randori, evitare di cimentarsi, priva del costruttivo piacere del confronto e abitua a scendere a compromessi con i propri limiti. Ben altra cosa è lo spirito del judo. Astenersi dal randori, preclude le possibilità di recepire e trasmettere che rappresentano i principi morali dello sport e in particolare del judo di Kano. Non è infrequente vedere in randori individui che manifestano una ottusa e improduttiva rigidità, in antitesi con la flessibilità psicofisica che questo genere di esercitazioni richiede. La rigidità è la conseguenza di ciò che potremmo definire “Pathos da confronto”. Tali paure sono in genere causate dalla incapacità di gestire il turbinio di stati emotivi che il confronto ingenera. È in queste situazione che la mente si ottunde, il corpo si irrigidisce e ciò che ne consegue, è una sorta di judo/non judo. In questi casi la terapia è randori, randori, randori. Il randori effettuato nel rispetto della sua etica, eseguito con piacere, determinazione e mente libera da inibizioni, può dare luogo ad una pratica gratificante, attivare un sicuro percorso di crescita e mitigare, in senso lato, i cosi detti “Pathos da confronto”. Un ricordo molto lontano: avevo circa quindici anni quando in un randori con il Maestro Isamu Ishii (colui che maggiormente ha influito sulla mia formazione judoistica) questi mi disse: “C’è una continua tensione nel tuo corpo. Non va bene”. Immediatamente risposi (ero molto giovane e non avevo ancora ben assimilato la filosofia del rispetto, del silenzio e della riflessione): “Maestro è per difendermi dai suoi attacchi (cosa che mi riuscì difficile anche negli anni a seguire). Ishii scosse la testa e proseguì: “Non ti stai difendendo dai miei attacchi, stai soltanto rifiutando il mio judo. Non è questo il modo per migliorare. Devi imparare ad aprirti mentalmente per comprendere il tuo avversario e a decontrarti per consentire al corpo di reagire sulla base di quanto la mente gli suggerisce.” Ci volle del tempo ma imparai. Aprirsi per comprendere, comprendere per agire. Due principi del judo che dovrebbero assurgere a regole di vita. Un ricordo un po meno lontano: durante lo svolgimento di un corso nazionale istruttori, in un caldo mese di luglio di tanti anni fa sotto il pallone del Dojo dell’Accademia Nazionale, al Velodromo dell’EUR, un partecipante al corso madido di sudore, provato dalla fatica delle quattro ore quotidiane di judo mi disse: “Maestro quando lei ci dice “Ed ora randori!” il mio cuore si apre poiché questo è un modo sincero e bello per rapportarsi”. Apprezzai e condivisi le sue parole, riflettei sui valori morali e spirituali di quanto asseriva, anche perché, quelle parole, provenivano da un maturo uomo di fede, sacerdote cristiano e insegnate di judo. Buon Randori

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